Giovanni Muzio

 
 
 
MUZIO, Giovanni. – Nacque a Milano il 12 febbraio 1893 da Virginio, architetto noto in area bergamasca, e da Maria Viganò. La famiglia si trasferì a Bergamo nel 1902.
Dopo gli studi classici fu ammesso per concorso al collegio Ghisleri di Pavia, presso il quale frequentò il biennio del corso di laurea in ingegneria. Nel 1912, nuovamente a Milano, si iscrisse alla Scuola di applicazione per architetti civili. Diplomatosi nel 1915, combatté nel conflitto mondiale nel corpo di artiglieria alpina, partecipando alle azioni del Sabotino e del Gorizia. Fu istruttore sciatore alla I e IV Armata e prese parte alla battaglia dell’Ortigara (L’Alpino, 14-15 luglio 1939). Il periodo bellico costituì una fase importante nella formazione di Muzio, «salutare pausa ad un tirocinio professionale e culturale d’incerta valutazione» (Irace, 1994, p. 232); contribuirono ancora all’elaborazione della sua cifra stilistica la permanenza in Veneto, che suscitò in lui un mai più sopito amore per il Palladio e, terminato il conflitto, il soggiorno a Parigi in qualità di membro della sezione militare della Conferenza per la pace, da dove, spostandosi di frequente alla volta delle principali città europee, poté entrare in contatto con differenti realtà culturali. Di ritorno a Milano nel 1919, prese a lavorare nello studio di via S. Orsola con Mino Fiocchi, Gio Ponti ed Emilio Lancia.
Connotazione principale dell’attività di Muzio in quegli anni furono la grande attenzione al territorio e alla città e la convinzione che qualsiasi contributo realmente fattivo ed efficace, a livello sia ideologico sia progettuale, dovesse essere apportato in forma collettiva: «all’esasperato ed arbitrario individualismo, che nella singolarità delle trovate faceva consistere l’abilità e la fama di un progettista, parve necessario sostituire una regola: soltanto da una disciplina e da una comunanza di sentire si sarebbe formata, a poco a poco, una nuova architettura» (Bona, 2004, p. 29). A questo periodo risalgono la chiesa di Zorzino presso Bergamo (1920-24), il padiglione dei fiori all’Expò di Diano Marina (1921), il progetto di una casa con studi e abitazioni per artisti a Milano (1921, con Lancia e Ponti) e alcuni studi di ville sul lago di Como (Irace, 1994). Nei medesimi anni, lavorò a Milano presso lo studio dell’ingegner Pier Fausto Barelli e dell’architetto Vittorino Colonnese, con i quali curò la realizzazione del fabbricato situato in angolo tra le vie Moscova e principe Umberto, eloquentemente ribattezzato dai milanesi «cà Brüta» (1919-22).
L’edificio aveva fatto parlare di sé a causa di alcuni inconvenienti di natura strutturale – forse cedimenti – verificatisi nel corso della realizzazione e, soprattutto, delle polemiche suscitate dal sistematico e spregiudicato sfruttamento della vasta area verde, ormai distrutta, sulla quale era sorto, ovvero il bel giardino Borghi con il villino omonimo, «ornamento del corso Principe Umberto, … sacrificato ad una mal consigliata speculazione» (Mezzanotte - Piacentini, 1922-23, p. 84). Appare plausibile che tali posizioni di contrasto potessero trarre origine dalla più generale consapevolezza, nuova e in certo modo dolorosa, della nascita «dell’ideologia di uno sfruttamento intensivo del suolo urbano […]. Al tradizionale profilo della città, delimitato dalle emergenze monumentali delle porte civiche, si andava sovrapponendo uno skyline aggressivo e intrusivo che partiva dalla conquista delle aree a verde e dall’occupazione dei vuoti dei cortili…» (Irace, 1994, p. 61). Garbato portavoce delle polemiche sorte intorno all’oggetto architettonico in sé era stato dalle pagine di Architettura e arti decorative Paolo Mezzanotte, il quale, evidenziando le forme, definite «stravaganti», dell’edificio appena ultimato nei piani superiori, constatava come il linguaggio elaborato mancasse della serena pacatezza propria delle architetture classiche cui, peraltro, i progettisti affermavano di essersi ispirati. Nel medesimo articolo Marcello Piacentini prendeva le difese del progetto, ravvisando in «quella casa lì sull’angolo, arrotondata, a tre zone orizzontali di colore, piatta, semplice, modesta, quella casa che è veramente una casa e non vuole essere altro che una casa» un encomiabile tentativo di liberazione dalla «opprimente decorazione cementizia delle facciate» e un’ispirazione realmente italiana, «milanese anzi» (Mezzanotte - Piacentini, 1922-23, p. 85). L’innovativo trattamento dei volumi e l’originalità dei partiti decorativi, derivanti da una personalissima e «inedita rilettura della città neoclassica», attuata da Muzio mediante il montaggio «di frammenti figurativamente autonomi e giustapposti secondo una grammatica pregna di echi metafisici» (Irace, 2003, p. 1774), rese la casa di via Moscova emblema di una nuova architettura.
L’originalità del linguaggio e la moderna articolazione funzionale delle planimetrie connotano anche le architetture minori di Muzio: si rammenta, tra le altre, la villa Minetti (1923-24), situata in straordinaria posizione panoramica in località Cantoniera della Presolana, a 1300 m di altezza sulle prealpi bergamasche, costruita «su di un forte pendio scendente verso nord, e distribuita in modo di non avere alcun locale aperto a settentrione ma tutti orientati a mezzogiorno e sui due panorami più belli, verso la montagna a nord ovest il salone e verso il passo a mattina la sala da pranzo» (Villa in montagna, 1926-27). La pianta irregolare, modellata secondo le visuali più suggestive, i prospetti decorati a fresco e le bucature disposte a rammentare i motivi delle loggette centinate tipicamente lombardi si coniugano efficacemente agli ambienti, ben distribuiti e piacevolmente movimentati nella disposizione per quote sfalsate.
Al medesimo periodo risale il Tennis Club di Milano, all’epoca il più grande in Italia, con i corpi laterali in forma di tempietti circolari ritmati dalle semicolonne e dalle bucature sormontate alternativamente dai timpani triangolari e semicircolari, lodato da Carlo Cecchelli quale esempio «di straordinario buon gusto e di chiarezza costruttiva» (Cecchelli, 1924-25, p. 302); ancora a proposito di Muzio, lo stesso autore ne citava le chiesuole realizzate nel contado lombardo e «uno strano monumento funerario» nel cimitero monumentale di Milano, ovvero la tomba, in forma di stele scolpita, di Iginio Dell’Oro (ibid., pp. 304, 306).
Negli anni Venti Muzio fu interlocutore vivace nel dibattito architettonico e presenza importante nella vita culturale milanese e italiana in genere. Collaborò in maniera continuativa con numerose testate, quali Popolo e arte, diretta da Gherardo Ugolini, ed Emporium; fu tra i fondatori dell’Associazione artistica tra i cultori di architettura in Milano (1926) e, nel 1923, del Gruppo degli architetti-urbanisti milanesi che annoverava, tra gli altri, Alberto Alpago Novello, Ottavio Cabiati, Giuseppe De Finetti. Con questi prese parte al concorso per la redazione del nuovo piano regolatore della città di Milano (1926), nel quale il gruppo ottenne il secondo premio con un progetto contrassegnato dal motto Forma Urbis Mediolani.
Ancora con Cabiati, Alpago Novello, Ponti e Tomaso Buzzi lavorò alla progettazione del Monumento ai caduti in piazza S. Ambrogio a Milano, opera che costituì per Muzio un’opportunità decisiva nel suo percorso professionale.
Il famedio, «prodotto del nuovo decisionismo fascista» (Irace, 1994, p. 91), fu oggetto di un concorso la cui prima tornata, bandita nel 1924, aveva visto la partecipazione di 80 gruppi – scultori e architetti – alle prese con un’opera sulla quale era stata lasciata ampia libertà di scelta relativamenteall’impostazione concettuale. Cabiati e Alpago Novello ricorsero alla valenza solenne e celebrativa dell’arco di trionfo; analoga in tal senso la proposta di Muzio, che aveva preso parte a questa prima fase con lo scultore Salvatore Saponaro. Il giudizio giunse fino al secondo grado senza che la giuria esprimesse una valutazione. In seguito, pare per volontà dello stesso Mussolini, soggetto della composizione divenne la Vittoria; la commissione opinò infine di conferire l’incarico della progettazione del monumento a Muzio, Ponti, Alpago Novello, Buzzi e Cabiati, ricostituendo la medesima compagine che aveva preso parte al concorso per il piano regolatore di Milano. Il gruppo lavorò a una versione affatto differente sia per quanto al concetto ispiratore sia per la localizzazione, non più presso la stazione ferroviaria ma nell’area posta a fianco della basilica di S. Ambrogio, nelle vicinanze dell’erigendo palazzo di Giustizia: «l’ispirazione dichiaratamente bramantesca, pur nella semplicità del partito decorativo, l’austera preziosità dei materiali, l’essenzialità delle modanature, furono lette come lezione di un’architettura tradizionale affrancata da una classicità scolasticamente riesumata […]. E a quell’ambientamento del sacello non guastano né gli espliciti richiami volumetrici al tiburio ottagonale della confinante basilica di s. Ambrogio, né lo sviluppo a torre civica, né il confronto con la torre della prospiciente sede dell’Università Cattolica » (Pigafetta - Abbondandolo - Trisciuoglio, 2002, p. 126).
Nel successivo progetto per la nuova sede dell’Università cattolica del Sacro Cuore, intrapreso nel 1929 e portato avanti nella realizzazione fino al 1949 e oltre, Muzio parve aver raggiunto «un perfetto equilibrio fra la sua vocazione a trarre insegnamenti dalla più alta tradizione architettonica e l’attenzione agli accenti della modernità» (ibid., p. 127).
La struttura in cemento armato non viene portata in evidenza: un gioco di specchiature e riquadri in lieve aggetto – lesene, arcate, cornici – movimenta con pittoriche vibrazioni chiaroscurali le facciate rivestite da una cortina di laterizio sulle quali spicca, in netto contrasto cromatico, il blocco a doppia altezza del portale d’ingresso, collocato quasi in angolo in posizione fortemente asimmetrica.
Il desiderio di «rinnovare la presenza istituzionale della Chiesa e dei valori della civitas Dei nella metropoli laica» (Irace, 2003, p. 1775) innescò l’intensa attività di Muzio nel campo dell’architettura religiosa e chiesastica in specie nella diocesi di Milano, attività favorita dal programma di evangelizzazione delle nuove periferie urbane promosso dall’arcivescovo Ildefonso Schuster. È stato rilevato (Irace, 1994, p. 203) come, forse in ossequio al padre Virginio, autore di numerose architetture sacre, Muzio avesse già esercitato, a quell’epoca, un «quieto tirocinio progettuale» in tale direzione nella sua terra d’origine: nella sola provincia di Bergamo si rammentano, oltre a quella, già citata, di Zorzino, le chiese di Pozzolo Formigaro (la sola completata, nel 1922), Ponte Nossa e Albino (1923), Sotto il Monte (1928). La chiesa di S. Maria Annunciata in Chiesa Rossa (1932) in via Neera a Milano rientra a pieno titolo nel programma del cardinale Schuster.
Un progetto era stato già redatto nel 1925 a opera dell’ingegner Franco Della Porta e realizzato limitatamente alla canonica e alle fondazioni; alcuni anni dopo Muzio volle mantenere inalterata la pianta basilicale a tre navate, collocando una sola abside in luogo delle tre previste in origine. Elemento caratterizzante è il pronao in facciata, sorretto da un ordine gigante di pilastri rettangolari con un arco nel centro. Bello e di forte impatto il movimento di masse, enfatizzato dall’uso del mattone, dato dai volumi del battistero ottagonale e della cappella, distaccati dal corpo principale dell’edificio a rivendicare la propria identità spaziale.
La medesima tipologia di pronao fu ripresa da Muzio in alcune realizzazioni successive, come la chiesa del complesso conventuale di S. Ambrogio e S. Antonio da Padova a Cremona (1936-39), dalla «tipologia spaziale ad Hallenkirche con cui fa librare nel cielo una cadenza di volte a botte estradossate» (Benedetti, 2000, p. 45). L’arco di mattoni, non più dilatato nella lunghezza, ma ripetuto e sovrapposto in più ordini a formare una sorta di «diaframma metafisico» (Irace, 1994, p. 119), si configurò poi come elemento di raccordo e unificazione, ancora una volta di forte connotazione, tra i corpi di fabbrica disposti perpendicolarmente alla via Renzo Bertoni del nuovo complesso dell’Angelicum – convento e centro culturale – realizzato tra il 1939 e il 1947.
Nel 1931 la Fondazione Bernocchi commissionò a Muzio il progetto per il palazzo dell’Arte, ultimato nel 1933, struttura polivalente situata all’interno del parco Sempione e destinata a ospitare la V Triennale milanese delle arti decorative.
Sul fronte posteriore l’edificio si apre verso il parco con un loggiato. Il prospetto principale è schermato da una parete completamente traforata, con il grande arco centrale inquadrato da paraste. Il marmo bianco utilizzato determina un forte contrasto cromatico con il volume retrostante, rivestito di mattoni di klinker e lastre di granito rosso di Baveno. L’effetto dato dalle formelle appare forse meno incisivo rispetto al laterizio impiegato alla Cattolica: «è il Muzio del periodo eroico-neoclassico che cerca di non rinunciare al partito suo tradizionale, e tuttavia lo deforma e gli dà un insolito rapporto per renderlo adatto ai tempi» (Reggiori, 1933; Pigafetta - Abbondandolo - Trisciuoglio, 2002, p. 127).
Gli anni Trenta videro Muzio protagonista dello scenario urbanistico e architettonico del capoluogo lombardo: si rammentano, in proposito, l’edificio della Cassa di risparmio delle Provincie lombarde in via Verdi (1937-42, con Giovanni Greppi), la sede dell’Amministrazione provinciale in via Vivaio (1938-41), il palazzo del Popolod’Italia in piazza Cavour (1938-42), destinato a divenire la sede del quotidiano più vicino al duce, che si apprestava a celebrare i 25 anni di vita con un sempre crescente numero di lettori. La progettazione fu preceduta da una fase di accurata documentazione: nel gennaio 1939 Muzio si recò in Germania e in Gran Bretagna per visitare le sedi dei principali quotidiani e aggiornarsi in merito agli schemi distributivi più moderni e funzionali.
La conformazione venne elaborata da Muzio secondo due zone distinte per modalità e tipologia di fruizione: l’una, prospiciente la piazza Cavour, destinata agli uffici e alla rappresentanza, con il ‘nucleo sacro’ costituito dal salone del duce, l’altra, ovvero lo stabilimento vero e proprio con le rotative e i laboratori, in posizione arretrata. In facciata sono le bucature con sviluppo longitudinale a scandirne il ritmo insieme alle lesene giganti rivestite di pietra di Chiampo. I partiti decorativi di Mario Sironi furono realizzati solo in parte: tra questi è il  bassorilievo in marmo di Carrara che sormonta l’ingresso. Dopo la caduta del regime il palazzo ospitò la sede di numerose testate e prese il nome di palazzo dei Giornali, o dell’Informazione: oggi costituisce la sede delle redazioni milanesi de La Stampa e del Financial Times e di aziende di differenti settori.
Ancora a Milano, Muzio si cimentò in quegli anni in numerosi interventi di edilizia abitativa: il fabbricato di via Giuriati (1930), piacevolmente movimentato dall’arretramento dell’ultimo livello, con un balcone centrale sorretto da quattro pilastri quadrati rastremati verso il basso; le case alle vie Longhi (1933-34) e Ampère (1934-35); il grande complesso Bonaiti e Malugani in piazzale Fiume, l’odierna piazza della Repubblica (1936-37), con portali in bassorilievo di Giacomo Manzù, caratterizzato dall’uso della litoceramica color rosso scuro dalla fitta tessitura ortogonale in lieve aggetto che inquadra le bucature, cui si contrappone cromaticamente il marmo chiaro dell’alto basamento e dei tre ordini del loggiato centrale.
Tra le opere realizzate fuori Milano si rammentano le ville Borrelli a Marzio presso Varese (1930), Comelli e Muzio (la Ca’ Movina, residenza di famiglia) a Sirmione, rispettivamente nel 1934 e nel 1937, Leidi a Bergamo (1935). Dal 1931 al 1935 fu impegnato nella realizzazione del palazzo del Governo di Sondrio, con partiti decorativi eseguiti da Gianfilippo Usellini e Antonio Majocchi.
Alla base del progetto era la necessità di reperire una sede conveniente alla prefettura, a vari uffici provinciali e ai servizi a questi annessi in un edificio che, pur collocato nella ‘piccola scala’ di un centro urbano come Sondrio, avesse una connotazione di architettura emergente rispetto al contesto. Muzio concepì un corpo di fabbrica nel quale due torri quadrangolari individuano gli ingressi principali e una lunga galleria coperta da volte a crociera, «elemento unificatore e trama del racconto degli spazi architettonici» (G. Malacarne, in L’architettura di G. M., 1994, p. 194), collega il corso Vittorio Emanuele all’odierno corso XXV Aprile. Notevole la ricerca operata in favore di un linguaggio aperto agli idiomi locali, dai materiali utilizzati ai motivi a graffito tratti da decorazioni tradizionali.
Negli anni 1940-42 Muzio prese parte con Enrico Griffini, Vico Magistretti e Piero Portaluppi, «stranissima cooperativa di quattro artisti dissimilissimi per temperamento e mentalità» (Reggiori, in Irace, 1994, p. 128), al concorso, vinto al secondo grado, per la sistemazione della piazza del Duomo; il progetto con i due padiglioni dell’Arengario, posti in posizione simmetrica rispetto all’asse della galleria Vittorio Emanuele in angolo con la via Guglielmo Marconi, traforati da un doppio ordine di arcate, sarebbe stato in parte completato nel 1956.
Nel 1940, a Roma, realizzò gli edifici INA e INPS nell’area dell’E42, in collaborazione con Mario Paniconi e Giulio Pediconi; ancora nella capitale fu artefice del grande complesso costituito dalla chiesa di S. Maria Mediatrice e dalla annessa casa generalizia dei frati minori francescani situato sul colle del Gelsomino nel quartiere Aurelio, in prossimità del Vaticano, progettato e realizzato negli anni 1942-50.
La chiesa è posta al vertice della composizione ideata da Muzio, preceduta da una vasta area alberata, delimitata da corpi di fabbrica più bassi con i quali pare protendersi verso la città. Le masse murarie rivestite di mattoni sono appena marcate dalle partiture che non ne intaccano l’imponenza. La cupola a base ottagona si eleva con forma piramidale; l’ingresso ripropone l’arco inquadrato da un doppio ordine di colonne di marmo apuano.
Dopo il conflitto mondiale l’attività professionale di Muzio proseguì, proficua e ininterrotta ma in certo modo estraniata dal contesto, fino al 1980, indirizzandosi in maniera significativa verso l’architettura chiesastica e religiosa in genere, con un numero notevole di realizzazioni tra le quali la chiesa di S. Giovanni Battista alla Creta a Milano (1958-61) e la basilica dell’Annunciazione a Nazareth (1959-69), anche se non mancarono interventi interessanti di edilizia abitativa.
Tra i vari settori in cui Muzio si trovò a operare va inoltre menzionata la partecipazione a numerosi concorsi di progettazione architettonica e urbanistica, tra i quali quelli per la redazione dei piani regolatori di Bolzano, Pisa, Verona (con Alpago Novello, Cabiati e Franco Poggi). È infine da ricordare la realizzazione, sull’intero territorio nazionale, di un notevole numero di stazioni e impianti idroelettrici posti in corrispondenza di bacini idrici naturali e artificiali e di corsi d’acqua (Pulelli, 2009).
L’attività didattica affiancò sempre quella professionale: docente di urbanistica al Politecnico di Milano dal 1935 al 1953 e di composizione architettonica al Politecnico di Torino dal 1936 al 1951, fu ordinario di architettura alla facoltà di ingegneria di Milano dal 1951 al 1963. Accademico d’Italia dal 1939, fu membro dell’Accademia di S. Luca che presiedette negli anni 1965-66 e 1971-72.
Morì a Milano il 21 maggio 1982.
Dall’unione con Emilia Belli nacquero Jacopo, Lucia e Lorenzo (n. 1932); quest’ultimo, architetto, durante gli anni Sessanta affiancò il padre nella realizzazione di numerose opere, tra lequali la torre Turati in piazza della Repubblica (1967).
L’archivio Muzio presso l’omonimo studio di via Barbavara a Milano, sede dell’attività dei nipoti Giovanni Tomaso e Sebastiano, entrambi architetti, conserva la documentazione relativa all’attività di Muzio dal 1920 al 1981: consta di 49 cartelle contenenti i disegni relativi a più di 200 progetti.
Fonti e Bibl.: P. Mezzanotte - M. Piacentini, Edilizia milanese, inArchitettura e arti decorative,1922-23, n. 2, pp. 84-93;C. Cecchelli, Recenti opere di architetti lombardi e delle Venezie, ibid., 1924-25, n. 7, pp. 302, 304, 306; Villa in montagna, ibid., 1926-27, n. 10, p. 471; P. Torriano, G.M., Ginevra 1931; F. Reggiori, Il palazzo dell’Arte, in Architettura, n. speciale, 1933, p. 9; C. De Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Bari 1972, pp. 124-128, 131, 136, 138, 149, 153, 166, 170, 176, 234 s., 294; G. Mezzanotte, G. M. Architetture francescane, Milano 1974; G. M.: tre case a Milano, a cura di G. Muratore (catal.), Roma 1981; G. M.: opere e scritti, a cura di G. Gambirasio - B. Minardi  (con il contributo di M. Casavecchia), Milano 1982; F. Irace, Cà brutta, Roma 1982; R.A. Etlin, Modernism in Italian architecture, 1890-1940, Cambridge-London 1991, pp. 188 s., 343 s.; L’architettura di G. M. (catal.), a cura di di F. Buzzi Ceriani, Milano 1994; F. Irace, G. M. 1893-1982. Opere, Milano 1994 (con bibl. e regesto degli scritti di M.); S. Cola - F.Della Torre - C. Botacchi, G. M. e il palazzo del Governo di Sondrio, Milano 1998; S. Benedetti, L’architettura delle chiese contemporanee: il caso italiano, Milano 2000, pp. 19, 21, 30, 40, 45, 49; G. Pigafetta - I. Abbondandolo - M. Trisciuoglio, Architettura tradizionalista. Architetti, opere, teorie, Milano 2002, pp. 121-128; L’architettura nelle città italiane del XX secolo: dagli anni Venti agli anni Ottanta, a cura di V. Franchetti Pardo, Milano 2003, pp. 25, 28, 54, 59 s., 104, 187, 373, 434; F. Irace, G.M., in Dizionario dell’architettura del XX secolo, III, Roma 2003, pp. 1774-1777; C. Visentini, L’equivoco dell’eclettismo. Imitazione e memoria in architettura, Bologna 2003, pp. 107-109, 139, 177; A. Bona, Città e architettura a Milano da Novecento al razionalismo: 1921-33, inStoria dell’architettura italiana. Il primo Novecento, a cura di G. Ciucci - G. Muratore, Milano 2004, pp. 126-137; Ville e villeggiatura tra eclettismo e razionalismo. 1875-1945, a cura di A. Pansera, Cinisello Balsamo 2005, pp. 41, 44, 82, 85, 196 s.; M. Alemanno, Le chiese di Roma moderna, II, Roma 2006, pp. 102-107; G. Pagano, Architettura e città durante il fascismo, a cura di C. De Seta, Milano 2008, p. 74; G.M. Mai, M. ArchiScrittore. Intorno all’architettura e ad alcuni scritti di G. M., Milano 2009; L. Pulelli, Architettura delle centrali idroelettriche italiane 1900-1940. L’esperienza di G. M. e Piero Portaluppi, Università degli studi di Bologna-Cesena, tesi di dottorato, dipartimento di architettura e pianificazione territoriale, 2009.
Raffaella Catini

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