Giò Ponti
PONTI, Giovanni (Gio). – Nacque a Milano il 18 novembre 1891 da Enrico e da Giovanna Rigone, in una famiglia molto rappresentativa della borghesia imprenditoriale lombarda.
A Milano frequentò il liceo classico e poi il Politecnico, dove si laureò nel 1921, dopo la parentesi della Grande Guerra, cui aveva partecipato in prima linea. Formatosi nel clima di rinnovamento che vide raggruppati in una comune battaglia i giovani milanesi del gruppo ‘neoclassico’, si associò inizialmente con gli architetti Mino Fiocchi ed Emilio Lancia: con quest’ultimo, in particolare, strinse un sodalizio (studio Ponti-Lancia, 1927-33) cui si devono alcune delle più significative opere della sua prima fase artistica e professionale. Risalgono a quegli anni le prime sperimentazioni nel campo delle arti decorative, dell’arredo e del disegno dell’oggetto domestico: nel 1923 avviò la collaborazione con le manifatture ceramiche Richard Ginori, debuttando alla I Biennale di Monza. Nel giro di poco più di dieci anni ne rivoluzionò l’iconografia, aggiornandone il gusto in consonanza con le mutazioni del clima artistico e culturale e in risonanza con il dibattito sul rapporto tra arte e industria. Lusinghieri successi avrebbe colto nell’Esposizione delle arti decorative di Parigi del 1925, dove le sue produzioni per Richard Ginori gli sarebbero valse il grand prix. Particolarmente notevoli, di questo periodo, la serie di vasi, piatti e urne dove esplorava, con verve aggiornata ai nuovi canoni déco, gli italianissimi temi di quella che egli stesso definiva «l’avventura classica». La sua prima opera d’architettura realizzata – la casa d’abitazione di via Randaccio (1924-26) –, progettata come residenza della propria famiglia, ha quasi le caratteristiche di un ‘manifesto’, per l’evidente travaso dell’esperienza artistica nelle decorazioni e nel gusto complessivo della palazzina che Ferdinando Reggiori giudicò «traduzione tangibile di un colorato disegno ornamentale» (Reggiori, 1926-27). Contemporaneamente Ponti si adoperò per dar forma a una nuova tipologia dell’abitare: il passaggio continuo dal fronte dell’oggetto singolo a quello dell’architettura e della polemica saggistica costituì il motivo più evidente di quella centralità che assunse per lui il tema dell’abitare come espressione diretta di una modernità legata non alle mode ma a genuine adesioni al proprio tempo. Quando nel 1927 aprì il suo primo studio con Emilio Lancia, a Milano era nato da poco il Gruppo 7 e il dibattito sul razionalismo infiammava la battaglia culturale delle nuove generazioni, in un clima di scontri rispetto ai quali Ponti si sarebbe tenuto sostanzialmente defilato, pur non mancando di registrare le suggestioni e le nuove parole d’ordine messe in scena. Il 1928 è una data significativa per lui, perché, raccogliendo su suggerimento di Ugo Ojetti la proposta dell’influente predicatore barnabita Giuseppe Semeria, fondò la rivista Domus, che sin dalla titolazione esprimeva l’idea di centralità della casa e il suo ancoraggio a una tradizione non formale ma di comportamenti: nello stesso anno nasceva a Milano la rivista La casa bella, che presto, sotto la guida di Giuseppe Pagano ed Edoardo Persico, sarebbe diventata l’organo del razionalismo italiano. La risposta di Ponti al tema dell’abitazione moderna si sarebbe conformata al programma espresso nell’editoriale del primo numero di Domus, La casa all’italiana: adesione alla cultura domestica come riformulazione dell’abitare moderno in linea con i movimenti di riforma dell’abitazione sostenuti in Europa dai razionalisti, ma allo stesso tempo sviluppandone le implicazioni spirituali e sociali intrinseche alla sua cultura cattolica. Avrebbe proposto dunque il concetto di ‘casa tipica’ al posto della corrente dizione di ‘casa in serie’, dandone concrete esemplificazioni nelle prime ‘domus’ di via De Togni (domus Julia, Fausta, Carola, 1931-36) a Milano. Progettate secondo un organico criterio di integrazione tra spazi e arredi, le case tipiche sintetizzavano la novità della tipologia (con abolizione dei corridoi, arredi fissi ed esaltazione degli spazi comuni) con la ripresa di alcuni elementi della tradizione italiana, come balconi, terrazzi, altane. Il riferimento alle Siedlungen tedesche si traduceva anche nell’ipotesi della ‘strada giardino’ con il complesso di via del Caravaggio (domus Onoria, Aurelia, Livia, Flavia, 1933-38), dove il metodo della variazione modulata di pochi elementi caratterizzanti combinava uniformità e caratterizzazione al tempo stesso. Significativamente, quando nel 1933 assunse la direzione della V Triennale – trasferita da Monza nel nuovo palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio –, ne sviluppò il motto «Stile e Civiltà» all’insegna di una circolarità tra architettura, arti applicate e arti decorative, egualmente concorrenti alla determinazione di modi di vita autenticamente moderni. Tra i punti di forza dell’esposizione la costruzione di prototipi di case arredate, sull’esempio del quartiere del Weissenhof inaugurato nel 1927 a Stoccarda, che per Ponti avrebbero dovuto costituire «una rappresentazione, in senso morale, della nostra civiltà». Sempre in Triennale, nella VI edizione del 1936, Ponti realizzò un’«abitazione dimostrativa», precorrendo quei temi della trasformabilità e della mobilità che sarebbero stati all’ordine del giorno nel mutato clima della ricostruzione, quando avrebbe coniato la formula della ‘casa esatta’, basata sulla perfezione della pianta senza sprechi e sull’analisi dell’‘attrezzatura’. Attraverso l’intensa attività pubblicistica su Domus e sul Corriere della sera, Ponti contribuì in maniera notevole all’affermarsi di una cultura della casa e di una nozione di design come momento formativo e qualificante della produzione seriale: a tale programma si sarebbe ispirata la sua attività di operatore culturale (con l’impegno diretto nelle triennali del 1930, del 1933, del 1936, del 1940 e del 1951), di docente universitario (dal 1936 al 1961 al Politecnico di Milano), di progettista ‘integrale’ come dimostra il caso del palazzo di uffici per la Montecatini (1935-38) che Pagano definì «ordinata tastiera» evidenziandone la straordinaria modernità di impianti, di tipologia e di arredi che si misuravano in maniera adeguata ai problemi della standardizzazione, della regia di un cantiere moderno, del disegno di un perfetto Bürolandschaft moderno. Il palazzo Montecatini, infatti, scaturisce da un impegno diretto nell’industrial design e fornisce una testimonianza di aderenza tra forma e funzione, tra sincerità espressiva e corretto uso dei materiali costruttivi. Fu l’edificio per uffici più innovativo realizzato in Italia e il suo cantiere aprì la strada a sperimentazioni inedite sull’uso di materiali antichi (come le lastre di marmo della facciata) in chiave moderna (la sottigliezza degli spessori che ne denunciava il carattere di rivestimento) e su quello di materiali nuovi (come l’alluminio, l’anticorodal, il vetro di inusitate dimensioni, il linoleum) che interpretavano tra l’altro le esigenze imposte dalla politica dell’autarchia. Speciali macchine per il lavoro possono considerarsi anche la sede della facoltà di matematica (1933-35) nella piacentiniana città universitaria di Roma e il complesso degli interventi per la facoltà di lettere e il rettorato nell’Università di Padova (1934-38). Se a Roma dovette misurarsi con le ferree prescrizioni imposte da Marcello Piacentini, a Padova l’empatica intesa con il rettore Carlo Anti gli consentì di confrontarsi con uno dei temi centrali della sua visione dell’architettura: il rapporto con le arti.
Per la possibilità concessagli da Anti di utilizzare un vasto manipolo di artisti (da Arturo Martini a Massimo Campigli, che affrescò il grandioso vestibolo d’accesso) nella realizzazione di un programma decorativo assolutamente eccezionale per estensione e qualità, l’opera fu particolarmente cara a Ponti che vi vide la possibilità di esprimere la ricorrente aspirazione all’‘opera d’arte totale’. Non a caso, per le pareti della scala del rettorato nel palazzo del Bo, Ponti si impegnò direttamente nella tecnica dell’affresco, in omaggio al ‘sogno della pittura’ che, in maniera più limitata, si era imposto anche nel 1936 nella sistemazione della Mostra internazionale della stampa cattolica nella Città del Vaticano. Con la progettazione e l’esecuzione della casa ‘doppia’ Rasini ai bastioni di porta Venezia, nel 1933 si era sciolto il sodalizio con Lancia e aveva preso avvio una fase progettuale (con Antonio Fornaroli ed Eugenio Soncini) contraddistinta dal personale avvicinamento ai modi della semplificazione razionale. Gli incontri con Edoardo Persico (che per primo ne comprese il valore e la posizione morale), con Guido Donegani (committente della Montecatini), con l’architetto austriaco Bernard Rudofsky (che lo avrebbe rinforzato nell’apprezzamento dell’architettura mediterranea) scandirono le tappe di un’interna maturazione verso una personale linea espressiva che fu a lungo giudicata agnostica o eccessivamente schiacciata sulle aspirazioni della borghesia lombarda e che invece la storiografia più aggiornata ha cominciato a rivalutare come originale via d’uscita dalle astrattezze di un razionalismo spesso ideologico o di maniera. La seconda metà degli anni Trenta segnò anche l’accentuazione del tema naturalistico che si era affacciato nelle ‘domus’ milanesi con la loro dotazione di balconi e terrazze destinate al verde. Nel 1938 l’incontro con Rudofsky inaugurò la strada dell’‘accademia naturalista’ con il progetto di albergo nel bosco a Capri, in cui la tipologia della casa collettiva di vacanze veniva ribaltata in quella del villaggio per una comunità desiderosa di abitare nel libero contatto con la natura. Da qui Ponti sviluppò un altro concetto di larga fortuna nelle sue architetture: quello della ‘casa d’evasione’, esemplificato nella sua maniera più completa nella villa Marchesano (1937-38) a Bordighera, ma sperimentato anche nelle versioni dell’hotel du Cap ad Antibes (1939), della villa Donegani (1940) a Bordighera, della sua stessa casa a Civate Brianza (1945) o dell’hotel Royal a Sanremo (1949). L’‘evasione nella casa’ significava per Ponti la valorizzazione delle risorse del paesaggio, ma soprattutto di quelle individuali: si trattava cioè non di un problema estetico, ma di un processo di revisione del moderno, la cui eccessiva astrattezza cominciava a denunciare i limiti dello schematismo. La casa per le vacanze postulava un’informale libertà di comportamenti, che l’architettura avrebbe dovuto cogliere e restituire aprendosi alla dimensione psicologica e individuale, al di là di ogni precetto tipologico o formale. Nel campo del design, i segni di questa ‘evasione’ si concretizzarono nei colorati disegni di tessuti (per Vittorio Ferrari, per Jsa e per Zucchi), nell’eccentrica produzione delle donne-uccello per Richard Ginori e di oggetti e lampade in vetro per Venini (che generò la serie delle donne-bottiglie, delle bottiglie ‘morandiane’, dei lampadari in pasta colorata che rinnovavano il gusto della tradizione settecentesca veneziana), di capricciose figure in smalto con Paolo De Poli, nelle estrose decorazioni a tutto campo con Piero Fornasetti, che avrebbe associato a molte delle sue importanti commesse negli anni del dopoguerra. Erano gli anni che coincisero con l’uscita da Domus e con la fondazione della rivista Stile (che avrebbe diretto fino al 1947, quando sarebbe tornato definitivamente alla sua vecchia testata): il titolo della nuova rivista – insistendo sulla unicità dell’espressione creativa riassunta appunto nel concetto di ‘stile’ – rifletteva il cambiamento di tono della ricerca di Ponti nel contesto inquieto degli anni che segnarono l’usura del razionalismo e le premonizioni di un cambiamento cui la lunga guerra avrebbe dato presto una svolta drammatica. Se da una parte Stile continuava e amplificava lo spirito di Domus, dall’altra anticipava le tematiche dell’organicismo e dell’empirismo che sarebbero emerse nel dibattito del dopoguerra. La singolarità della sua posizione, tuttavia, va valutata sulla base di una sostanziale continuità dell’idea di architettura come espressione morale: quando lo scoppio della guerra aprì il dibattito sui drammatici imperativi della ricostruzione, Ponti, smentendo la sua fama di artista di lusso, ne abbracciò i postulati sviluppando su Stile una serie di interventi sulla ‘Politica dell’Architettura’ e sull’unificazione edilizia come fondamento della ‘casa per tutti’. Particolarmente significativa fu in tale contesto la collaborazione con Adalberto Libera, che con Ponti condivideva le preoccupazioni per la casa sociale e l’intuizione che la ricostruzione richiedesse una forte industrializzazione dell’edilizia e quindi una seria ricerca sulla standardizzazione: da questa collaborazione sarebbe nato nel 1945 il libro Verso la casa esatta (con Guido Beretta, Pietro Giulio Bosisio, Adalberto Libera, Pierangelo Pozzi, Eugenio Soncini, Giuseppe Vaccaro, Carlo Villa). Non meno emblematico della sua posizione è il libro L’architettura è un cristallo, dello stesso anno, che avrebbe ripubblicato nel 1957 in una versione allargata nel più noto Amate l’Architettura, dove sono riassunti tutti i temi che avrebbero segnato la sua seconda stagione creativa. Per Ponti infatti – diversamente da tanti altri protagonisti dell’architettura italiana tra le due guerre – il dopoguerra non segnò una cesura o un cambiamento di rotta, quanto una logica prosecuzione e un potenziamento di interessi che ponevano al centro la necessità di doversi confrontare con la modernità dei nuovi materiali e con le aspirazioni della nuova democrazia. Cominciò infatti proprio negli anni Cinquanta un filone della sua ricerca destinato ad avere notevoli sviluppi e risonanze in tutta la sua opera successiva: l’interesse, cioè, per una maniera di comporre che dissolvesse i volumi in funzione di una fluidità spaziale assoluta e imprevedibile. Nel 1952 si associò con Alberto Rosselli, nello studio Ponti-Fornaroli-Rosselli (1952-76) e, accanto all’architettura, incrementò la sua attività nel campo della nascente industria dell’arredo e dell’oggetto di serie. Nasceva così la ‘superleggera’ per Cassina (1952-55), la famosa ‘sedia-sedia’ che sfruttava le caratteristiche tradizionali dei materiali portandole al massimo della loro espressività visiva. Ma nasceva anche, e si consolidava, l’attenzione dell’architetto per una forma d’arredo che componesse in assoluta essenzialità distributiva la casualità dei singoli pezzi d’arredo, creando la serie dei mobili ‘compositi’ (come armadio-camino, testiera-cruscotto, quadri luminosi) che avrebbero trovato interessanti esemplificazioni in una serie di arredamenti (arredamento Ceccato, 1950; camera d’albergo alla IX Triennale, 1951) oltre che nella precisazione del concetto di finestra ‘arredata’. Attraverso una nutrita serie di opere alla scala dell’architettura e del design, Ponti precisava la predilezione per un assottigliamento del volume e della struttura; un comporre per pareti staccate, per superfici traforate che non si saldano in unità tettonica, ma anzi sono esibite nel loro sovrastrutturale ricoprire l’interna ossatura portante. Tutte queste predilezioni sarebbero state sintetizzate nella sua teoria della ‘forma finita’ («non il volume fa l’architettura, ma la sua forma chiusa, finita, immutabile») che avrebbe trovato la sua immediata metafora espressiva nella figura del cristallo che «nella natura rappresenta il finito contro l’indefinito» (Ponti, 1957).
L’esplorazione delle forme ‘a diamante’ trascorreva dall’oggetto singolo (piastrelle di ceramica Joo, 1956, posate per Christofle, 1955) all’architettura vera e propria (Istituto italiano di Stoccolma, Svezia, 1952-59; «prédio Italia» e Centro di fisica nucleare, San Paolo, Brasile, 1953; Fondazione Garzanti, Forlì, 1954), fino a giungere alle due opere più complesse di quella stagione: la villa Planchart a Caracas (1953-56) e il grattacielo Pirelli a Milano (1956-61). Commissionatagli da un’agiata famiglia di imprenditori venezuelani, la villa Planchart fu la prima, e la più riuscita, di una serie di commesse (villa Arreaza, casa Gorrondona) nella capitale Caracas: di essa disegnò ogni singolo particolare, non solo l’architettura, realizzandovi il ricorrente ideale modernista dell’‘opera d’arte totale’. Sulla cima della collina del ‘Cerrito’, la ‘quinta’ Planchart sviluppa il tipo della casa a patio, facendo convergere gli ambienti principali della casa sul vuoto plasmato come una grotta dalle ceramiche di Fausto Melotti; la cura principale fu nel creare prospettive sguscianti di muri sottili che consentivano da ogni punto di attraversare l’intera lunghezza della casa, che finiva così con l’assomigliare a uno sfaccettato diamante. Piena di ‘invenzioni’, la casa era un manifesto della creatività italiana: dai marmi dei pavimenti alle grandi lastre di vetro, dagli arredi alle opere d’arte e d’artigianato (Morandi, Melotti, Rui, Campigli, Gambone, De Poli ecc.), tutto venne realizzato in Italia e trasportato a Caracas, persino i servizi di piatti, disegnati da Ponti con i monogrammi dei proprietari e realizzati dalla Richard Ginori. Il grattacielo Pirelli invece fu realizzato da Ponti a Milano come sede generale dell’omonimo gruppo industriale e in un certo senso ripropose il tema del disegno integrale dell’attrezzatura e dell’architettura affrontato nel palazzo Montecatini. Se questo aveva ai suoi occhi la pecca di poter essere ampliato quasi all’infinito, il Pirelli superava il limite della replicabilità grazie alla sua particolare pianta a diamante, che lo rendeva immutabile e conchiuso come la più piccola villa di Caracas. Il grattacielo è infatti una torre isolata che sviluppa il motivo di due valve accostate e socchiuse sui lati in una pianta che venne pubblicizzata da Ponti come logo stesso dell’intero edificio. Il vuoto tra le due metà gli consentì di esplorare i temi congiunti della leggerezza e della luminosità, perché di notte il lungo taglio di 127,10 m viene evidenziato dalla luce interna producendo un effetto di smaterializzazione di grande suggestione. Non furono solo gli aspetti formali a costituire la novità e il prestigio del grattacielo, che fu uno straordinario laboratorio di progettazione dove Ponti trovò in Pier Luigi Nervi il suo efficace alter ego. La struttura portante fu infatti sintetizzata dall’ingegnere romano in pochi pilastri che emergono rastremandosi verso l’alto per saldarsi nella parte interna al tetto, che così appare come sospeso rispetto al sottostante curtain wall. Come per la Montecatini, il punto di partenza è fissato all’interno, perché il modulo dimensionale corrisponde all’unità del tavolo da lavoro e allo spazio necessario attorno a esso. Il modulo scandisce la facciata e questa risulta appesa alla struttura senza nasconderla, ma anzi evidenziando il diagramma dei supporti verticali. Esempio di progettazione integrale, il grattacielo Pirelli fu anche significativo dell’accettazione condizionata della cultura americana a Milano, giacché sia la sua forma particolare sia il disegno delle facciate in vetro rifiutavano il tipo dello skyscraper rettangolare e uniforme, proponendone di fatto una revisione più attenta al paesaggio italiano. Una menzione merita l’Istituto Italiano a Stoccolma, commissionatogli dall’ingegnere Carlo Maurilio Lerici, cui Ponti attribuì sin dall’inizio il valore pubblicitario della creatività italiana, facendone un autentico manifesto dell’architettura, dell’ingegneria (si deve a Nervi il disegno della particolare struttura dell’auditorium), dell’arte e del design. I due successivi decenni – con l’ulteriore espansione professionale in Oriente (villa Nemazee, Teheran, 1960; Pakistan House, 1962, Islamabad, e palazzo dei Ministeri, 1962-64, Islamabad; facciata dei magazzini Shui-hing, Hong Kong, 1961-63, e casa Daniel Koo, Hong Kong, 1963) – coincisero con la massima internazionalizzazione della sua pratica professionale (auditorium nel Time & Life Building, New York, 1959; magazzini Bijenkorp a Eindhoven, Olanda, 1966-69; Denver Art Museum, Denver, Colorado, 1970-72 ecc.), ma anche con l’esplorazione dell’architettura dello spazio sacro che, dopo il convento del Carmelo a Sanremo (1958), le chiese di S. Luca (1955-60) e di S. Francesco (1961-63) e la cappella dell’ospedale S. Carlo (1964-67) a Milano, trovò il suo capolavoro nella concattedrale di Taranto (1964-71). Isolata su un podio a specchio sull’acqua, la chiesa fu immaginata da Ponti come una gigantesca scultura grazie alla facciata traforata che fa da schermo e da ‘vela’. Ponti vi portò infatti a grandioso compimento il tema della facciata libera – esplorato anche in forma sommaria negli schizzi per la cattedrale di Los Angeles – e condusse alle estreme conseguenze la tensione a smaterializzare l’architettura in una sorprendente serie di effetti luminosi. La facciata traforata costituisce il motivo principale anche dell’Art Museum a Denver: inaugurato nel 1972, può considerarsi quasi un testamento della sua profezia dell’architettura leggera e una sintesi di quegli esperimenti a scala urbana promossi dal palazzo Montedoria (1964-70), dal palazzo INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni; 1967) e dal palazzo Savoia Assicurazioni (1970) a Milano con cui Ponti stava aprendo un’ulteriore fase della sua ricerca, interrotta dalla morte, avvenuta a Milano il 16 settembre 1979. Opere. Amate l’architettura, Milano 1957. Fonti e Bibl.: F. Reggiori, Villa a Milano in via Randaccio degli architetti Emilio Lancia e G. 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Gómez, El Cerrito. La obra maestra de Gio P. en Caracas, Caracas-Milano 2008; F. Irace, Gio P., Milano 2009; Id., I maestri del design. Gio P., Milano 2011.
Fulvio Irace http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-ponti_(Dizionario-Biografico)/ |
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